Generazione Performance

Andrea Lissoni / Work Art in progress (A/W 2006-2007)

Generazione Performance

Andrea Lissoni / Work Art in progress (A/W 2006-2007)

Che aria tira nella generazione di artisti più giovani che si confrontano oggi con la performance? Quali sono le modalità espressive, le forme, le direzioni e le urgenze?

La prima ottima risposta è che il campo c’è, ed è ben visibile. In Italia, il lavoro delle realtà indipendenti ha illuminato un’area di ricerca creativa che covava sotto troppe falde e rischiava di faticare a sopravvivere, così nascosta in un cono d’ombra.

Uno scarto generazionale unito alle insofferenze per i sistemi (dell’arte, del teatro, della danza e, in parte, della musica) e per le loro convenzioni di codici e di formati, hanno disegnato un territorio nuovo per una comunità di autori: fuoriusciti, esuli, clandestini, ma soprattutto sperimentatori e ricercatori di altre forme e diverse prospettive.

Il Premio internazionale della performance è, di fatto, un ottimo osservatorio su questo territorio sfrangiato, liminare e scosso dalle tensioni. Una fotografia dall’alto dell’ edizione 2006, può consentire di provare a tracciarne la morfologia, fare ipotesi di lettura e provare a rispondere in parte alle domande iniziali.

Fra le prime considerazioni, in generale, affiora un’autentica necessità di ri-misurarsi con il tempo e con lo spazio, a partire da opere che problematizzano entrambe le categorie. Per esempio, emergono modulazioni dei tempi nelle forme più svariate: una sola immagine “tenuta” per venti minuti (è il caso delle opere pur diversissime di Sabine Kuntoff, Mara Castilho e Ondrej Brody), interventi con opere-ambiente che occupano uno spazio per la durata di un’intera sera (Francesca Grilli, Ivan Civic) o incursioni brevissime (Alejandro Ramirez, Cosmesi). Per quello che riguarda lo spazio invece, le opere di Cinthia Marcelle e di Francesca Grilli forse non a caso sono state premiate dalla giuria: introducevano di fatto uno scarto linguistico.

Affrontando criticamente un ambiente, lo hanno interpretato e ripensato assecondando la tradizione artistico-visiva dell’opera in situ. Di qui, una sorta di manifestazione grigia e silenziosa che percorre e poi lascia alle sue spalle la grande Sala Turbine per l’artista brasiliana ed un’opera-ambiente che affronta magnificamente la campata suggestiva della Sala Comando per Francesca Grilli.

Non c’è dubbio che la musica sia una delle questioni chiave su cui si costruisce l’identità cultural-generazionale di questi artisti. La sua radicale trasformazione negli ultimi anni ha completamente rimesso in gioco i modi di produzione e di consumo ridisegnandone senso e funzioni e offrendo alle generazioni più giovani nuovi spazi e modi di auto rappresentazione. D’altra parte, è certamente vero che fra gli artisti di ricerca più considerati a livello internazionale, la rielaborazione del proprio universo musicale o sonoro è indubbiamente un segno distintivo, come del resto testimonia l’assegnazione del primo premio a Nico Vascellari nella prima edizione del Premio (2005). Cosa raccontano le dodici performance presentate alla Centrale di Fies da questo punto di vista? Che sia sotto forma di musica, con una funzione di strutturazione dei tempi della performance come per Kulli K. Kaats, Sabine Kuntoff, Cosmesi e Jan Machacek, o di voce, per Nark Bkb o Alejandro Ramirez, o piuttosto di un loro incrocio o alternanza, come per Ivan Civic ed Elisa Fontana, il suono c’è, e abbondantemente.

Gli ultimi anni hanno visto una generale maturazione della ricerca artistica nei processi di conoscenza tecnica e di produzione delle tracce audio e video e non stupisce che la qualità generale delle performance realizzate per il Premio fosse piuttosto alta.

L’apertura a opere più articolate e lontane dalla tradizione della performance, come per esempio i live media, è un punto su cui si può ancora insistere in futuro; tuttavia Erase, Erase, Erase di Jan Machaceck era un interessante esempio di convivenza di musica elettronica (di ascendenza post rock), corpo e sua mediazione in video, con un bizzarro tentativo di collusione fra gli immaginari dei movimenti del performer e le sue vaghe allusioni a figure da b-boy. Discorso in parte analogo per La primadonna di Cosmesi, la cui quasi troppo impeccabile esecuzione, interagiva con un tessuto sonoro ricco, eclettico ed irrequieto.

E il corpo? Quello che, splendidamente, Alighiero Boetti definiva “ciò che sempre in silenzio parla” e che è l’elemento senza cui performance non esisterebbe? Abbozzando una riflessione si può dire che a fronte di una formazione nelle arti performative si assiste a una messa in scena del corpo dell’artista, variamente modulato: è il caso di Sabine Kuntoff il cui corpo quasi sfrontato, fisso sul pubblico, ostenta un’immagine che di fatto nasconde un dettaglio prezioso, e con lui il cuore dell’opera: un lavoro performativo misuratissimo sul volto e le sue trasformazioni. E di Elisa Fontana, che con Wunder Smash Party, lascia filtrare, oltre ad una conoscenza degli standard visivi international style, un’energia generazionale dirompente e non ripiegata su se stessa. O di Ivan Civic, che nello spazio della Forgia, ha impostato uno show perfetto (forse perfino troppo…) nella struttura dei tempi, nella costruzione del set, nell’uso delle immagini video e nell’ interazione fra corpo, spazio, suono e immagini. Chi invece ha un background nelle arti visive, ha prediletto altri o più corpi, l’evocazione del corpo, la sua espansione nell’ ambiente. Senza troppo generalizzare, ricordiamo l’opera di Nark Bkb, con un corpo completamente assente, mediato e mediatico, quello di Marco Pannella sfatto dal digiuno e rievocato in una scena vuota attraverso la sola diffusione della sua voce impastata.

E, in un orizzonte non lontano, Cuenta cuentos (Cantastorie) di Alejandro Ramirez, con una donna matura, unica presenza in scena, chiamata a raccontare la storia di un artista, che rivela alla popolazione locale la sua scoperta: di come attraverso l’arte mentire o ingannare diventino fatti socialmente accettati. O, ancora, Arriverà e ci coglierà di sorpresa di Francesca Grilli, dove una coppia in età avanzata danza sulle musiche dei classici del liscio; la proiezione video di un dancing a fondo sala spalanca una porta verso un’altra dimensione, né struggente né ironica, ma folgorante, poetica e soprattutto autentica, lasciando spazio a qualsiasi pensiero e a qualsiasi forma di ingresso in scena possibile da parte del pubblico. In un contesto tecnicamente impeccabile, è quasi la presenza di composizioni ineccepibili e programmate, che rischia di diventare un limite per un linguaggio la cui grana sta nella necessità e nell’ autenticità, o nei suoi consapevoli tradimenti. Attenzione, questo non significa però che la performance attraversi una fase di maniera, al contrario. È come se le condizioni determinassero una richiesta di flagranza. Di un tutto rivelato, lungo un tempo dato e stabilito. La performance vive per sua natura sul margine e sulle faglie di conflitto dei sistemi artistici. E lì si alimenta, in un processo di reciproco scambio di appropriazione e di cannibalismo gioioso. Ecco perché le performance più efficaci, come quella di Cinthia Marcelle o di Francesca Grilli offrono dei margini di discontrollo, di apertura, imprevedibilità. Quasi sempre evocano un altrove, un fuori campo che prescinde dalla flagrante presenza dell’opera: un’altra immagine, ulteriore, che sta, forse, in un altro luogo. Ma che resta latente, semi-invisibile, come abbagliata dall’evento performativo in sé. E che, una volta evocata, non aspetta altro che di essere vista e riconosciuta.

È così che la performance sta agganciata al reale. Ed è così che può anche assumere un valore ed una funzione testimoniale. E, naturalmente, sprigionare emozione.

(Andrea Lissoni, Work Art in progress,  A/W 2006/2007)

ENG – Performance Generation

What winds are blowing in the youngest generation of artists dealing with performance today? What are the expressive modes, the forms, the directions and the urgencies?

The good first answer is that the field is there, and is very visible. In Italy, work from the world of the independent organizations has brought to light an area of creative research that had been brooding away under too many layers and risked not surviving, hidden in the shadows. A generational reject, tied to the intolerance for systems (of art, of theater, of dance, and in part of music) and for their conventional codes and formats, sketched out a new territory for a community of creators: political refugees, exiles, clandestine immigrants, but above all experimenters and researchers of other forms and from diverse perspectives. The International Prize for Performance is, in fact, a great observatory on this frayed territory, liminal and shaken by tensions. A photograph from above of the 2006 edition can allow us to attempt to plot out the morphology, make hypotheses and to try to respond in part to the first questions.

Of the first considerations, in general, comes the authentic necessity to contain ourselves in time and space, departing from the works that problematize both categories.

For example, modulations in time emerge in widely varied forms: a single image held for twenty minutes (as is the case in the very diverse works of Sabine Kuntoff, Mara Castilho and Ondrej Brody), interventions with artwork-environments that occupy a space for the duration of an entire evening (Francesca Grilli, Ivan Civic) or very brief incursions (Alejandro Ramirez, Cosmesi). Regarding space on the other hand, the works of Cinthia Marcelle and Francesca Grilli were not by accident awarded jury prizes; they introduced, in fact, a linguistic gap. Critically confronting an environment, they interpreted and rethought it following the artistic-visual tradition of the work in situ. From here, a sort of grey and silent protest that follows along and then leaves behind the great Sala Turbine in the case of the Brazilian artist and an artwork-environment that magnificently confronts the suggestive span of the Sala Comando in the case of Francesca Grilli.

There is no doubt that music is one of the key questions on which the cultural-generational identity of these artists is constructed. Its radical transformation in the last years has completely brought back into play modes of production and consumption, redrawing sense and functions and offering the younger generations new spaces and modes of self-representation. Moreover, it is certainly true that among research artists most considered to be at an international level, the re-elaboration of the musical or audio universe is undoubtedly a distinct sign, as the assignment of the first prize to Nico Vascellari in the first edition of the Prize (2005) attests. What do the twelve performances

presented at the Centrale di Fies tell us from this point of view? That it is under the form of music, with a function of structuring time that the performances like those of Kulli K. Kaats, Sabine Kuntoff, Cosmesi and Jan Machacek, or of voice, in the cases of Nark Bkb or Alejandro Ramirez, or rather of their intersection and alternation, like for Ivan Civic and Elisa Fontana, the sound is there, and abundantly. These last years have seen a general maturation of artistic research in the processes of technical understanding and of production of audio tracks and video and it does not surprise that the general quality of the performances realized for the Prize are rather high. The opening to works more articulate and further from the traditions of performance, as for example live media, is a point on which one can insist also in the future; all the while Jan Machaceck’s Erase, Erase, Erase was an interesting example of the cohabitation of electronic music (of post rock origins), body and its mediation in video, with a bizarre attempt at collusion between imagination of the movements of the performer and their vague allusion to B-boy moves. A discourse partially analogous in La primadonna by Cosmesi, nearly too impeccably executed, interacted with a rich audio fabric, eclectic and restless.

And the body? That which Alighiero Boetti splendidly defined “that which always in silence speaks” and which is the element without which performance would not exist?

Sketching out a reflection one can say that at the front of a formation in the performative arts one can witness a mise en scene of the body of the artist, variously modulated: it is the case with Sabine Kuntoff whose body flaunts almost shamelessly, fixed on the public, an image that in fact hides a precious detail, and with this the heart of the work: a highly measured performative work on the face and its transformations. And Elisa Fontana, who with Wunder Smash Party, lets filter, in addition to a knowledge of the visual standards of international style, a disrupting generational energy not retreating into itself. Or Ivan Civic, who in the space of the Forgia has placed a show that is perfect (perhaps even too much so…) in the structure of time, in the construction of the set, in

the use of video images and in the interaction between body, space, sound and images.

Who instead has a background in visual arts, has favored other or more bodies, the evocation of the body, its expansion in the environment. Without generalizing too much, let’s recall the work of Nark Bkb, with a body completely absent, mediated and mediating, that of Marco Pannella undone by fasting and re-evoking a blank scene through the diffusion of his gritty voice alone. And on a not distant horizon, Cuenta cuentos (Storyteller) by Alejandro Ramirez, with a mature woman, the sole presence on the scene, called to recount the story of an artist, that reveals to the local population her discovery: that how through art, to lie or to cheat become socially acceptable facts. Or again, Arriverà e ci coglierà di sorpresa (It will come and take us by surprise), where a couple of advanced age dances to the classicals of ballroom dance; the video projection of a ballroom at the back of the room throws open a door to another dimension, neither moving nor ironic but dazzling, poetic and above all else authentic, leaving space for whatever thought and whatever form of entrance into the scene possible to the public.

In a technically impeccable context, it is the presence of unexceptionable and program med compositions that almost risks becoming a limit for a language whose grain is the necessity of authenticity, or in its conscious betrayals. A word of caution: this does not mean however, that performance goes through a phase of affectation, on the contrary.

It is like the conditions might determine a fragrance's request. Of a revealed whole, during a given and stabilized time. Performance by nature lives at the margins and faultlines of conflict in artistic systems. And there it feeds itself, in a process of reciprocal exchange of appropriation and of joyous cannibalism.

This is the way the most effective performances, like that of Cinthia Marcelle or of Francesca Grilli offer margins of uncontrol, of opening, unpredictability. Nearly always, they suggest another place, an out-of-bounds that disregards the flagrant presence of the work: another image, subsequent, that is perhaps in another place. But that stays latent, semi-invisible, blinded by the performative event itself.

And that, once evoked, waits for nothing other than to be seen and recognized.

It is thus the performance is linked to reality. And it is thus that it can also assume a value and a testimonial function. And naturally, release emotion.

(Andrea Lissoni, Work Art in progress,  A/W 2006/2007)

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